La teoria del Set Point: la storia

La Teoria del Set Point è stata pensata da Bennet e Gurin (1982) per spiegare un fenomeno che a molti dietologi, medici e psicologi capita di osservare: la stabilità ponderale della maggior parte degli individui nel tempo nonostante ripetute modifiche dell’equilibrio alimentare. Gli studi sul funzionamento delle diete e sui meccanismi di regolazione del peso indicano che coloro che hanno perso peso, in una percentuale compresa tra il 90% e il 95%, va incontro al recupero del peso iniziale nei successivi 5 anni. Questi studi sono interpretati come se, una volta ripreso un regime alimentare non ipocalorico, il nostro corpo tendesse a ristabilire i valori precedenti. In altre parole, il nostro corpo tende a mantenere la costanza del peso pur in una grande varietà di condizioni alimentari e ambientali Il Set Point è stabilito da una serie di diversi fattori interagenti, tra cui: fattori genetici, livelli di attività fisica, livello di ormoni sessuali, livello di ormoni dello stress, stato nutrizionale, assunzione di farmaci anabolizzanti o catabolici, fattori psicologici ed eventuali danni fisici o neurali.

In effetti, alcuni studiosi sono convinti che la dieta sia uno strumento inefficace perché si oppone al meccanismo naturale di controllo del peso.

Il nostro corpo, infatti, è dotato di meccanismi fisiologici che si oppongo allo spostamento del peso sia in eccesso sia in difetto, ossia si può ipotizzare un livello di peso che tendiamo a difendere: in maniera del tutto automatica e naturale regoliamo il nostro segnale di fame, il livello di attività fisica e la scelta dei cibi in base alle calorie.

Il peso corporeo come “termostato” identitario

Uno degli aspetti fondanti di questa teoria risiede in un concetto cibernetico oramai applicato in una quantità innumerevole di ambiti: la regolazione a feedback. Un esempio frequentemente utilizzato è quello del termostato: la temperatura è mantenuta all’interno di un range costante, osservando i cambiamenti del sistema stesso; se i gradi diminuiscono, avviene l’accensione della caldaia che si spegne nel momento in cui la temperatura supera il valore/soglia impostato. Così come il termostato, il corpo umano sarebbe, quindi, regolato da un meccanismo che, attraverso processi anabolici e catabolici, assimilerebbe in misura variabile il cibo introdotto. Ciò darebbe senso agli studi che riportano che in media un maschio bianco americano di 60 anni pesi solo 4/5 kg in più di quando aveva 30 anni, mantenendo le percentuali di massa muscolare, densità ossea e grasso corporeo in un intervallo ristretto. In un modo simile al termostato, gli organismi mantengono la stabilità monitorando costantemente il loro stato interno e modificando le variabili fisiologiche per avere valori regolari.

Negli anni ‘50 l’antropologo Gregory Bateson venne a contatto con il pensiero cibernetico e ne propose l’applicazione per descrivere le interazioni umane, ambito nel quale ogni individuo reagiva alle risposte dell’altro attraverso forze in equilibrio dinamico, affermando che la teoria dei sistemi poteva spiegare questo equilibrio con la nozione di autogoverno attraverso la retroazione. L’informazione che giungeva da una data azione veniva ricorsivamente reintroiettata nel sistema, ciò gli consentiva di regolare l’attività successiva, modificandola. Bateson e i colleghi della scuola di Palo Alto applicarono tale approccio anche al concetto di famiglia, descrivendola come un sistema cibernetico che si autogoverna attraverso la retroazione. Con la retroazione negativa il sistema si corregge e ritorna allo stato originario, ogni volta che è colpito da informazioni nuove che tendono, invece, a sbilanciarlo. La famiglia è un sistema omeostatico, con una “autoregolazione automatica”, che tende a “mantenere il sistema” riducendo qualsiasi deviazione dall’introduzione di nuove informazioni.

Come per la famiglia, anche per l’individuo se una variabile cresce ci deve essere un’altra che decresce al fine di mantenere il sistema in equilibrio. Quindi secondo Bateson, tutti i sistemi biologici ed evolutivi (cioè gli organismi individuali, le società umane e animali, gli ecosistemi, ecc.) consistono in reti cibernetiche complesse e tutti hanno in comune l’esistenza di sottosistemi potenzialmente rigenerativi così da conseguire uno stato stazionario. Questi sistemi sono conservativi, nel senso che essi tendono a mantenere costanti i valori di quelle variabili che altrimenti manifesterebbero un cambiamento esponenziale. Il fine è, quindi, l’omeostasi: gli effetti di piccoli cambiamenti saranno annullati e lo stato stazionario sarà mantenuto tramite adattamento reversibile; in altre parole, la costanza di una certa variabile è assicurata dalla variazione di altre variabili. Ciò è alla base del progresso evolutivo: saranno perpetuate le mutazioni che contribuiscono alla costanza di quella complessa variabile che chiamiamo sopravvivenza.

L’aspetto rilevante è che, da questa prospettiva, ci rendiamo conto che tutto il sistema-mondo si comporta proprio come un sistema autocorrettivo, tendente a realizzare il mantenimento di un equilibrio che non rappresenta un valore aggiunto alla causa della persistenza nel tempo del sistema stesso, ma ne indica una legge strutturale. Se tutto ciò fosse applicabile al sistema individuo, potremmo trarne che il mantenimento del suo equilibrio è parte della struttura stessa della persona.

La teoria del Set Point: una lettura costruttivista ermeneutica

Alla luce di quanto esposto finora, l’aspetto che mi sembra più deficitario della teoria del Set Point è il considerare la persona in modo parcellizzato, o da un punto di vista biologico/genetico o da uno che consideri abitudini e stili di vita. L’impostazione che frequentemente adottano gli esperti nel mondo dell’alimentazione è quella di considerare il peso come se fosse una caratteristica a sé; modificare il peso di un individuo è significativamente differente rispetto al curare un sintomo; se un uomo si taglia o si rompe una gamba, l’intervento medico e del paziente stesso è mirato a recuperare lo stato iniziale; l’individuo, quindi, non cambia sostanzialmente le sue modalità relazionali se non per un periodo limitato (ad esempio: una persona propensa a essere molto disponibile e di aiuto agli altri, se si rompe una gamba dovrà essere, per un breve periodo, colui che l’aiuto lo riceve); viceversa la persona che è grassa o magra, lo è da molto tempo e lo è diventata progressivamente, calibrando, quindi, le sue relazioni con l’altro attraverso una lunga serie di validazioni o invalidazioni alle sue sperimentazioni.

Inoltre la maggior parte delle volte un sintomo “improvviso” come quelli descritti precedentemente, non è “parte di me” come l’obesità o la magrezza. Approfondendo, per quanto l’essere sovrappeso o sottopeso possa essere una condizione indesiderata per una persona, tale condizione è ciò che la aiuta a mantenere in modo migliore l’equilibrio della sua identità. Quindi, insegnare abitudini alimentari e stili di vita sani è una condizione necessaria, ma non sufficiente, in quanto l’essere obeso o molto magro non è solo un numero sulla bilancia, ma un modo di mettersi in relazione con gli altri. Una persona che per anni ha stabilito relazioni con l’altro sapendo di essere grasso e sapendo di essere visto grasso, probabilmente ha definito alcune modalità di stare insieme agli altri che non sarebbero le stesse se egli fosse magro e viceversa. A questo proposito, utilizzo spesso un esempio non molto raffinato, ma efficace: se un uomo che si considera brutto e che sogna di diventare come George Clooney si svegliasse una mattina e guardandosi allo specchio vedesse proprio George Clooney, credo che ne rimarrebbe semplicemente paralizzato piuttosto che entusiasta.

Così l’obeso che dovesse, grazie al cambiamento di stili di vita e abitudini alimentari, trovarsi in una condizione di buona forma fisica, si troverebbe di fronte a una serie di minacce al suo modo di vivere nel mondo; il far leva sulla possibilità di fare sport, di avere un aspetto fisico migliore, di essere più apprezzato dagli altri ecc., sono solo apparentemente modi per aumentare la motivazione al trattamento, rischiano invece di sortire l’effetto contrario in quanto la persona, a un basso livello di consapevolezza, non saprebbe come vivere quelle situazioni che per tutti (egli compreso, in apparenza) sono reputate preferibili. In altre parole, vivrebbe probabilmente la condizione di essere un “magro uomo grasso”. Una persona che si costruisce come normopeso, infatti, ha trovato un modo di vivere da normopeso, colui che è grasso o molto magro ancora no.

Come si interviene in modo efficace

Tutto ciò non significa assolutamente che, allora, una persona non possa cambiare il proprio stato ponderale; invece credo che la strada sia più facilmente percorribile se la aiutiamo a costruire la realtà passando da una definizione nuova di sé in mezzo al mondo. In altri termini, se un elemento così centrale come il corpo viene a modificarsi, per i principi precedentemente esposti, la persona tenderà omeostaticamente a tornare a quella struttura che maggiormente gli dà senso; ecco perché il peso ponderale degli esseri umani è così stabile nel tempo.

Quindi, se vogliamo cambiare qualcosa di noi, dobbiamo crearci e immaginarci un mondo in cui quel cambiamento sia compatibile con la descrizione che facciamo di noi stessi.

Proprio per questo, tutti quegli interventi sulla persona che combinino il lavoro dello Psicologo con quello del Dietista o Dietologo si sono rivelati i più efficaci e duraturi nel tempo, fonte di benessere e di concreto e stabile cambiamento per la persona che desideri migliorare se stessa.

Dott. Marco Ancillotti

Psicologo – Psicoterapeuta

Contattalo per ricevere maggiori informazioni

Riferimenti bibliografici

Bateson, G. (1972). Steps to an Ecology of Mind. Ballantine, New York (trad. it. Verso un’ecologia della mente. Adelphi, Milano, 1976).

Bateson, G. (1979). Mind and Nature: A Necessary Unit. Dutton, New York (trad. it. Mente e Natura. Adelphi, Milano, 1984).

Bennet, W. & Gurin, J. (1982). The Dieters Dilemma. Basic Books, New York.

Chiari, G. & Nuzzo, M.L. (2010). Constructivism Psychotherapy. A Narrative Hermeneutic Approach. Routledge, New York.