È indubbio che il linguaggio e le classificazioni psichiatriche abbiano facilitato la comunicazione tra professionisti di formazione e provenienza diversa, così come si può affermare che l’assenza di sistemi e strumenti diagnostici condivisi e capaci di parlare il linguaggio della Psicologia abbia ridotto la possibilità di approfondire le nostre conoscenze e competenze, delegando al singolo Psicologo, alla sua formazione e alle sue opzioni teoriche, il compito di “dare un senso alla diagnosi” (per usare la frase che dà il titolo a un bel libro di Barron del 1998) e di comunicare col paziente stesso.

 

Nel frattempo, le categorie psichiatriche sono entrate nel nostro gergo quotidiano, tanto che gli stessi pazienti le adottano per indicare i problemi di cui soffrono, spesso al prezzo di una buona dose di confusione e di molte semplificazioni. È sempre più frequente che un paziente si rivolga a uno Psicologo dicendogli di essere depresso o ansioso o di soffrire di attacchi di panico o di essere un tossicodipendente. Ma qual è il significato di questi termini? Qual è il vissuto soggettivo della persona che li utilizza? Quali esperienze hanno prodotto quel vissuto? Quali sono gli affetti, i pensieri, le motivazioni e i comportamenti che ci vengono comunicati con questa terminologia?

 

Se domandiamo al paziente che si autodefinisce depresso o ansioso cosa intende dire, potrà capitare di vederlo rimanere perplesso, come se, dietro queste etichette, avesse smarrito il senso narrativo del suo disagio o della sua sofferenza. Questa situazione presenta il rischio di alienare il soggetto dal proprio vissuto e di indurlo a rapportarsi a se stesso tramite il filtro della banalizzazione medica delle categorie diagnostiche.

 

Uno dei compiti di una buona diagnosi clinica psicologica, invece, è quello di fornire ai clinici, e quindi ai pazienti, definizioni condivise e al tempo stesso di sviluppare  queste definizioni in contenuti informativi, così da facilitare la riflessione e la comunicazione.

 

Le nosografie psichiatriche, che fino a oggi hanno stabilito il vocabolario dei professionisti e di profani, hanno invece privilegiato un approccio descrittivo, ateoretico e categoriale di derivazione kraepeliniana, per certi versi lontano dalla complessità del funzionamento psichico.

 

Attualmente è in atto una “svolta dimensionale” delle nosografie psichiatriche, caldeggiata da un numero sempre più ampio di clinici attenti al punto di vista del paziente.

 

Nel nostro approccio, la diagnosi transitiva (Kelly, 1955) muove proprio da questo presupposto, perché non ci dobbiamo dimenticare che una diagnosi è utile se nella relazione terapeutica è considerata un’ipotesi di partenza da cui muovere i primi passi di un percorso verso un maggior benessere per il paziente…niente di più.

 

Dott.ssa Monia Giannecchini

Psicologa Psicoterapeuta